E’ stata un’occasione sprecata questo Vanishing in 7th street. Una piccola occasione sprecata per me, ma credo che sia per Brad Anderson che per i produttori del film tutto il progetto si sia rivelato un buco nero succhia occasioni e autostima (forse anche bei dollari, ma gli incassi del film non li conosco).

La mia occasione l’ho sprecata perchè avrei potuto vedere per la miliardesima volta un film a caso tra quelli che, pur conoscendo a memoria, mi dà sempre la certezza di non lasciarmi in gola l’esclamazione che più di tutte racchiude la soddisfazione dovuta ad un’appagante e saporita esperienza cinefila, ovvero “Figata cazzo!!!”. Fortunatamente a questo posso porre rimedio facilmente, tenendo il dvd di Predator sempre pronto sullo scaffale.

Sull’occasione persa da Brad Anderson (che non è esattamente l’ultimo imbecille sforna videoclip per pop-star) è il caso di soffermarsi un pò di più, inanzitutto perchè non sono sicuro che lui abbia il dvd di Predator a portata di mano (ma a chi non ce l’ha non credo permettano di girare degli episodi di Fringe, cosa che lui,invece, ha potuto fare) e poi perchè non capisco come si possa bruciare una storia del genere:

A Detroit, un improvviso black out fa misteriosamente sparire nel nulla la quasi totalità della popolazione, lasciando solo vestiti accasciati là dove prima c’erano le persone. Un piccolo gruppo di superstiti si ritrova in un bar, unica fonte di luce rimasta in tutta la città, circondato dalle tenebre che sembrano avere una volontà propria. Le speranze di uscirne vivi si assottigliano ora dopo ora, mentre le batterie delle torcie iniziano a scaricarsi e il buio si avvicina sempre di più.

Sembra una cazzatona come storia, ma ecco che dopo pochi secondi viene lanciata la rete cattura neuroni da nerd, che pare ricollegare il plot narrativo ad uno dei più grandi e inquietanti misteri della storia: la scomparsa dei coloni dell’isola di Roanoke, la cui unica traccia rimasta fu la parola Croatoan incisa su un albero.

A Holliwood forse dovrebbero imparare (e sarebbe anche ora porcaccia di quella vacca infame a gasolio) che fare un film riprendendo un mistero ancora irrisolto dopo più di 400 anni è come avere sotto mano una Gioconda da colorare senza uscire dai bordi. Hai un’opera già valida di per sè sotto mano, ti basta poco per migliorarla e renderla anche bella da guardare, e quel poco si traduce nel non uscire mai dai bordi quando colori, perchè una volta che ne esci il disegno è rovinato e non puoi fare altro che buttarlo nel cesso e prenderti le sberle che la maestra di disegno vorrà rifilarti per la tua palese incompetenza.

Non mi scaglierò, almeno per questa volta, sulla scelta degli attori. Perchè ce ne sono pochi, e nonostante siano sempre i soliti volti patinati da passarella si riesce a sopportarli (o, comunque, si viene distratti da quello che effettivamente mi è parso essere il grosso difetto del film).

Il guaio di questa pellicola, infatti, è che l’unica cosa che si vede svanire nel corso del film è il motivo stesso della sua esistenza. Ma perchè è stato fatto un film del genere? Bisognava pagare le rate dell’auto di Hayden Christensen? Thandie Newton doveva provare a se stessa di essere in grado di recitare una parte in cui non deve fare la figona della situazione? Brad Anderson aveva finito il sudoku da portarsi al cesso mentre fa la cacca? Anderson, mio caro regista “vorrei ma non mi lasciano fare”, che cazzo di film volevi girare esattamente?

La città deserta, immersa nel silenzio e cosparsa di vestiti che una volta erano persone funziona bene e fa sempre il suo effetto, specialmente quando quel silenzio viene rotto da un aereo che si schianta verticalmente in pieno centro. Ma quello che sarebbe stato carino mostrare era uno straccio di spiegazione sul perchè ci sia stato un blackout così improvviso, perchè (e come) tutta la città sparisce, e perchè cazzo le ombre abbiano una propria volontà e fattezze di persone che bisbigliano oltre a sembrare conoscenti più o meno intimi dei personaggi protagonisti.

A tutti questi domandoni filosofico-esistenziali il film non risponde mai, limitandosi a citare un paio di volte la vicenda di Roanoke e facendo capire allo spettatore che lo stesso fenomeno inspiegabile si sta ripetendo a Detroit, rimanendo però troppo sul politically correct, creando, per forza di cose, voragini nella sceneggiatura nelle quali potresti parcheggiare un autobus usando la tecnica del tamarro supremo che tira il freno a mano per sterzare (se, ad esempio, il segreto della sopravvivenza è restare nella luce, come mai due ragazzini che non hanno ne l’età ne l’abilità per accendere una scoreggia di mucca con un lanciafiamme riescano a sopravvivere facendo sempre il cazzo che vogliono là dove persone attrezzate con torcie e bengala non riescono a resistere?)

L’occasione, quindi, di vedere un film che riesca a farti spegnere il cervello per un paio d’ore nel bel mezzo della torrida estate in città viene bruciata senza tanti complimenti dunque. E oltre alla considerevole quantità di amaro in bocca che persiste durante lo scorrere dei titoli di coda resta anche un certo nervosismo nel vedere quanto poco si documenti certa gente prima di prendere in prestito dei soggetti (uno dei pochi ancora praticamente inutilizzato nel cinema tra l’altro) per realizzare un film.

Il fatto che il mistero di Roanoke fosse stato gestito meglio in una puntata di Supernatural avrebbe dovuto farmi suonare un qualche campanello d’allarme, che come in questo caso, ma anche come sempre in fondo, ho deciso di ignorare dando fiducia agli sceneggiatori in cui spero sempre di ritrovare quel talento nel raccontare le storie del fantastico che hanno fatto grande il luna park del cinema Hollywoodiano, almeno fino a pochi anni fa (ma che temo sempre più abbiano lasciato Hollywood facendo subire all’industria cinematografica americana quello stesso fenomeno che in Italia chiamiamo fuga dei cervelli).

A me il dvd di Predator dunque, il tempo di purificare occhi e neuroni è infine giunto…

Guida Galattica per gli Autostoppisti

Douglas Adams è una persona geniale. Questo è quello che ho pensato appena ho finito di leggere questo libro. Poi ho avuto quei dieci minuti in cui ogni lettore (che lo ammetta o meno) si crogiola nella soddisfazione di essere appena arrivato alla fine di un libro e ripercorre le tappe di quell’avventura che lo ha accompagnato per qualche giorno, nel mio caso, a questa bella sensazione si è aggiunto dell’inevitabile senso di colpa per aver aspettato così tanto ad iniziare a leggere un libro tanto osannato da chiunque. In quei minuti non ho potuto fare a meno di pensare che Adams non solo è una persona geniale, ma è anche uno scrittore dotato della fantasia più irreverentemente comica e fertile di cui mi sia mai capitato di leggere (non me ne vogliano Lansdale e i suoi fan, ma credo che l’universo creato e popolato di improbabili personaggi di Adams resti comunque un gradino sopra il microcosmo texano che tanto apprezzo dei racconti di Lansdale).

Presumo che, visto che di questo libro si discute da anni, essendo una sorta di raccolta ispirata da racconti radiofonici degli anni ’70, più o meno chiunque ne conosca la trama, chi non conosce il libro potrà, forse, radersi la testa, coprirsi di catrame e piume d’oca mentre assiste ad una serata di lettura dei classici di Federico Moccia, ma io la trama la descrivo comunque, tanto per non farmi mancare nulla:

Arthur Dent si sveglia una mattina e scopre che fuori casa sua ci sono delle grandi ruspe gialle. Sono venute per abbattere la sua casa, che dovrà fare posto ad una tangenziale. Il suo amico Ford Prefect, dopo avergli rivelato di essere un alieno rimasto per quindici anni sulla Terra, lo convince ad abbandonarla perché, in ogni caso, anche la terra tra pochi minuti subirà lo stesso destino. Pare proprio che il nostro pianeta si trovi esattamente nel luogo dove sorgerà un’autostrada iperspaziale. Nonostante lo scetticismo iniziale di Arthur, i fatti lo indurranno a credere al suo amico, costringendolo così ad affrontare un viaggio attraverso la Galassia.

Una trama riassunta in poche righe non rende minimamente giustizia al racconto. Quindi, non volendo rivelare altro per evitare di rovinare la lettura altrui, vomiterò genialate a caso pescate a caso dalla storia, ma sia chiaro che senza il magico filo che collega e intreccia tutto questo all’interno del racconto a molti non sembreranno altro che stronzate senza senso. Queste persone sono sicuramente quelli che del libro non sanno niente, e sicuramente, a questi soggetti, i fan di Adams vorranno pagare di tasca loro il parrucchiere, il catrame e le piume d’oca per una miglior resa nell’attività intellettuale sopra citata.

Declamazioni di poesie aliene talmente orribili da uccidere, presidenti della Galassia idioti il cui unico compito è fare cazzate per intrattenere il popolo, designer di pianeti costruiti su richiesta, ostili flotte aliene ingoiate per sbaglio da cagnolini e (il colpo di genio assoluto) un’astronave a propulsione d’improbabilità che nel suo incedere genera eventi assurdi e comicamente mastodontici e un robot dalla personalità maniaco-depressiva che non perde occasione per disprezzare la sua vita.

Dette in un unico lungo elenco sembra di sentire Rutger Hauer che esce da un rave party di tre giorni e tenta di recitare la battuta finale del replicante di Blade Runner ma, come dicevo prima, il genio di Douglas Adams sta proprio nel riuscire a sfornare ad un ritmo pazzesco delle assurdità impossibili da immaginare per la mente di (quasi) qualsiasi lettore, e inserirle in una storia che scorre leggera e veloce dall’inizio alla fine, e che lascia anche la sensazione di aver letto qualcosa di talmente divertente che quasi sei convinto possa essere perfettamente credibile.

Quello lasciato da Douglas Adams resterà sempre un vuoto incolmabile nel mondo della letteratura surreale, ma sono stato profondamente onorato di iniziare, grazie a lui, un viaggio stupendo e pazzesco attraverso uno sconosciuto universo di cui ignoravo l’esistenza. Sono certo che alla fine del viaggio, guardare le stelle riuscirà sempre a strapparmi un sorriso, perchè quello che guarderò avrà un significato diverso.

La cosa migliore di questo film è vedere che Romero, quando maneggia degli zombi, sa ancora dare diverse pennellate di classe.

Questo, purtroppo bisogna ammetterlo, non basta a fare di Diary of Dead un capitolo della saga convincente quanto gli altri (io ci metto dentro anche La Terra dei Morti Viventi perchè, anche se un pò forzato, è riuscito a divertirmi parecchio), probabilmente perchè Romero si è voluto cimentare per forza in un mockumentary perdendosi un pò per strada. Sta di fatto che il film, pur essendo realizzato piuttosto bene, esce un pò ammaccato dal confronto con la restante produzion Zombi firmata George Romero. Ma se si tralasciano dei buchi di trama grossi quanto il Grand Canyon e se si prendono i personaggi del film con la giusta dose di indifferenza, ci si gode un bel documentario fasullo condito da frequenti apparizioni di Zombi e diversi litri di plasma mostrati e versati.

Forse sono stato io ad essermi perso qualche spiegazione in merito, e ammetto che per pigrizia ho lasciato questo film sullo scaffale per quasi due anni prima di vederlo. Ma non ho mai sentito dire che fosse un remake che raccontasse un differente punto di vista su come tutta l’epidemia Zombi sia iniziata. Infatti, per qualche motivo a me sconosciuto, il film racconta la storia di un gruppo di ragazzi compagni di college che mentre girano un film dell’orrore assistono all’esplosione dell’epidemia e al rapido deteriorarsi della situazione.

Partendo dal presupposto che un mockumentary è forzato per definizione, ecco quello che proprio non mi riesce di digerire del film:

Il primo capitolo della saga zombi Romeriana è ambientato alla fine degli anni ’60, quindi ci sta benissimo il bianco e nero, i vestiti e le capigliature di un certo tipo e tutto il resto. Il secondo film (Zombi) è ambientato alla fine degli anni ’70, quindi ci sta ancora meglio l’idea del centro commerciale, dei balordi che razziano tutto e tutti e tutto quello che ben si conosce del film (chi non l’ha visto merita di essere travolto dalle piaghe d’Egitto il giorno prima di partire per le vacanze estive). Il terzo capitolo era perfettamente a metà degli anni ’80, e mostrava un pianeta ormai invaso al 99% dai morti viventi, quindi, se nella Terra dei Morti Viventi ci si sposta ai giorni (più o meno) nostri e tutto il film è incentrato su quattro poveri stronzi che non riescono a trovare un tavolo per farsi una briscola in santa pace senza che uno zombi gli vada a mordere il culo, non capisco come, in questo Diary of Dead, si assista (di nuovo) allo scoppiare dell’epidemia vedendo tutti muniti di computer portatili, cellulari e videocamere (per non parlare di internet, social network e tutto quello che può permettere la comunicazione via web). Qualcosa non quadra…ma probabilmete è colpa mia.

Comunque il dvd è già nel lettore e Re-animator è troppo lontano per prenderlo, quindi si tira un sospiro, si scuote un pò la testa e si manda il cervello a portare a spasso il cane, perchè la giornata è stata lunga e la voglia di vedere un film sugli zombi firmato Romero è abbastanza alta da passare sopra a questa incongruenza.

Poi arrivano i protagonisti. Ragazzi che tentano di stereotipare più o meno tutti i tipi di personalità che la cultura americana possa fornire. Sì va dalla texana modello biondo figa da monta che picchia di più e meglio di tutti i maschi messi insieme (e di cui per contratto si dovranno vedere le tette prima della fine del film), alla bigotta super credente in Dio che non può sopportare tutti quei dogmi della fede andarsene a puttane in cinque minuti. Passando per la fidanzatina mora che vede la sua vita distrutta e come se non bastasse si vede costretta a farsi crescere di colpo quel paio di testicoli che il fidanzato ha venduto per comprarsi una telecamera e poter compiere la sua missione documentaristica a costo della vita (ma che motivazione è?!? ma i tuoi amici non ti sfondano di calci nel culo tentando di farti rinsavire? sai com’è, durante un’epidemia di zombi due mani libere in più non fanno così schifo). C’i sono il nerd, il riccone e il tipo represso e incazzato, ma dal cuore d’oro (sembra l’inizio di una barzelletta, ma di risate questi tre non ne strapperanno mai). Ma quello che ha messo maggiormente alla prova la mia pazienza è stato il professore, praticamente un monumento al clichè: un professore di arte (o cinematografia, non lo si capisce mai veramente), depresso e senza nessuno al mondo, in preda a un alcolismo compulsivo ma capace di maneggiare arco e freccie come Robin Hood, e obbligato da qualche disegno divino a sparare una pseudo puttanata facente funzione di lezione di vita ad ogni occasione buona (salvo poi giocarsi tutta la sua apparenza di guida saggia e capace nella ricerca di alcolici ogni due minuti).

Ora, la cosa bella del film, è che riesce a sopravviverea tutti questi difetti mantenendo una sua dignità. E non solo, il ritmo resta sempre a un certo livello e capita abbastanza spesso di vedere qualcosa che funziona davvero, facendoti pensare “che figo! ma perchè non l’avevano mai usata per i quattromila film di zombi pessimi e inutili prima di questo una trovata del genere?”. La risposta, trovata dopo trovata, è solo un bel “non lo so, ma ‘sti cazzi!”. Perchè Romero con gli zombi non delude, pur perdendo un pò di qualità, ma gli si può perdonare, perchè non so quanto possa essere facile per un regista della vecchia scuola come lui cimentarsi in un mockumentary. E mi sento di applaudirlo per non essersi adagiato sugli allori, in fondo ai suoi fan poteva bastare vedere qualche effetto speciale e sbudellamento per andare in visibilio, mentre qui viene tutto dosato in funzione della storia (ma di scene forti ce ne sono un bel pò).

Sono stato contento di vedere che la saga degli zombi continua a vivere e mantenersi qualitativamente sopra molte produzioni dal budget più consistente, sperando che, passata la moda del mockumentary, Romero possa deliziare i suoi fan con un film di zombi vecchio stile. Grazie ancora George!

Avrei voluto aspettare ancora un pò per scrivere di questo film. Perchè quando si parla di horror si parla sempre e comunque anche di Non aprite quella porta, è inevitabile, come è inevitabile il fatto che in qualsiasi discussione sul genere si trovi sempre la persona che lo nomina nel tentativo di sentirsi più esperto degli altri (ma dimenticandosi puntualmente di menzionare il perchè questo film venga sempre citato). Però stamattina sono inciampato sul DVD quindi non ho potuto fare a meno di vederlo, quindi tantovale scriverne finchè il disco è ancora caldo e togliersi lo sfizio.

Perchè Non aprite quella porta è davvero una pietra miliare dell’horror, è stato davvero un caso cinematografico che ha segnato un’epoca, e sicuramente fa bene il suo dovere inchiodando lo spettatore alla poltrona e facendogli provare sensazioni che difficilmente riesce a provare con i film horror più convenzionali.

Ma cosa rende questo film così unico?

A voler ben vedere la trama non ha tutta questa carica innovativa e, se la memoria non mi inganna, viene mostrata in modo non troppo esplicito una vagonata di violenza (cosa impensabile per il 1974), ma di sangue se ne vede veramente poco.

Quello che fa la differenza tra questo gioiellino e il restante 99% degli horror prodotti prima e dopo la sua uscita è l’atmosfera. Ed è questo aspetto a creare la magia, da allora rimasta incompiuta sia da Tobe Hooper che da altri grandi registi che si cimentarono nell’impresa, di realizzare un film marcio, sporco, disturbante e malsano come Non aprite quella porta.

La trama rasenta la pochezza di un film porno: un gruppo di ragazzi scelgono di fare una gita lungo l’itinerario più sfigato di tutti gli Stati Uniti d’America, incappando in una famiglia di pazzi assassini e cannibali.

Pur constatando un pò a malincuore la pochezza di trama che affligge il film, vanno menzionate le numerose genialate sfoderate da  Kim Henke e Tobe Hooper che hanno trasformato una trama da outlet del neurone a un film capolavoro:

Si fa passare il film per un fatto realmente accaduto, mentre in realtà è solo ispirato dalla vicenda del serial killer Ed Gein. Comunque la mossa continua a rendere in fatto di popolarità (e qui scatta l’applauso al popolo americano per la capacità di farsi rapire da qualsiasi stronzata gli si serva su un piatto d’argento), tanto che, citando Wikipedia: “Questo effetto fu talmente riuscito che tutt’oggi le biblioteche della cittadina di Burkburnett, Texas, e della vicina Wichita Falls, situate nei pressi in cui la storia è stata ambientata, ricevono regolarmente richieste di copie originali di articoli di giornale legate agli eventi narrati nel film”.

Sono gli anni ’70. Gli Stati Uniti sono invasi da fricchettoni nullafacenti e spippacannoni che stanno parecchio sulle palle a una buona fetta della popolazione americana, quindi le vittime saranno senz’altro degli Hippies, così facciamo godere un pò anche gli onesti lavoratori americani.

Per fare questo film si hanno pochi mezzi, quindi bisogna stupire e inorridire la gente facendo marcire la loro immaginazione e gli standard a cui sono abituati. Piazziare un ragazzo in sedia a rotelle (per quanto abbia una delle 10 più grandi facce da culo del cinema) nel bel mezzo del massacro potrebbe suscitare lo scalpore e l’indignazione necessari.

Visto che gli hippies, non facendo un cazzo tutto il giorno, scroccano passaggi a tutto andare a chi, lavorando, una macchina se l’è potuta comprare, facciamo iniziare tutta la storia con un autostoppista pazzo e armato di rasoio. Tanto per far stare tranquilli quei capolavori di intelligenza innovativa che pensano sia prudente dare passaggi agli sconosciuti che vagano nei posti più desolati d’America.

Già che siamo in vena di personaggi pazzi, spingiamo sull’acceleratore ed estremizziamo la cosa mettendo in scena un’intera famiglia di assassini cannibali (crimine che ancora oggi in America sensibilizza paurosamente l’opinione pubblica), e come ciliegina sull torta vediamo di prendere un fottuto armadio a 2 ante di nome Gunnar Hansen, piazziamogli in mano una motosega e mettiamogli in faccia una maschera di pelle di visi umani cuciti tra loro, nel caso qualche americano si fosse già dimenticato di Ed Gein. Così anche se il resto del film dovesse venire una merda, l’idea che entrerà nella storia è comunque assicurata.

Per dare un senso di realismo e disturbo allo spettatore obblighiamo l’intero cast a tenersi addosso gli stessi vestiti per tutta la durata delle riprese, visto che ci sono almeno 30 gradi all’ombra probabilmente non servirà pagare dei corsi di recitazione e alla fine andranno fuori di testa da soli rendendo tutta la scena molto realistica.

Chiudiamo il film facendo sopravvivere i cattivi e facendo impazzire la protagonista, così ci garantiamo i diritti su diversi sequel uno più brutto dell’altro, e gli spettatori che dopo tutto quel marciume forse si aspettavano un lieto fine per riprendere fiato e dormire tranquilli si vedono arrivare un ultimo calcio nei denti.

Sono più o meno questi gli elementi che fanno di Non aprite quella porta un film poco adatto ai palati delicati, soprattutto a quelli a cui in un film horror non importa chi sia la vittima o il carnefice, ma importa piuttosto che tutti abbiano un look figo e che i capelli gli restino in piega mentre ascoltano l’ultimo singolo dei Ramstein dall’iPhone. Qui l’orrore viene tirato in faccia allo spettatore come se si trovasse in mezzo al fuoco incrociato di un branco di scimmie che si tirano le palle di cacca addosso, e paradossalmente, chi riesce a farsi prendere dal film, l’odore di cacca e di marcio lo sentirà in abbondanza.

Hooper ha avuto senza dubbio una carriera altalenante nel corso degli anni successivi, ma lo si perdona, perchè comunque ha fatto diverse cose più o meno valide (di cui spero di riuscire a scrivere prossimamente) quanto questo film, senza dubbio è rimasto su standard che registi ben più osannati si sono dimenticati da un pezzo.

 

Lost

Diciamo subito che il finale di Lost è stata la cosa più deludente vista negli ultimi dieci anni di televisione.

J.J. Abrams è un talento indiscusso, su questo non ci piove. Ha partorito quella genialata di Cloverfield (progetto comprensivo della migliore campagna pubblicitaria sul web che io abbia mai potuto vedere), ha soffiato via la polvere sotto cui era rimasta sepolta la serie di Star Trek, ha creato Fringe, in cui tutti riponiamo la speranza di vedere un erede di X-Files. E poi c’è Lost, la serie che ha conquistato milioni di spettatori in tutto il mondo con le sue trovate e i suoi misteri, fino a perdersi in quell’immenso buco nero di sceneggiatura che fu il suo finale di stagione.

Credo che tutti i fan della serie, una volta finito di vedere la puntata finale, abbiano levato nel cielo un coro inneggiante una semplice e breve domanda: Abrams, ma che cazzo hai fatto???

Per intenderci, un fan ha speso un totale di sei anni vivendo ogni settimana una febbrile attesa, chili di quell’ansia mista ad emozione, e impazienza di sapere cosa sarebbe successo dopo. E in quei fottutissimi ultimi 18+1 episodi finali, tu decidi di prendere tutti per il culo e non spiegare niente di quelle fantastiche figate con cui ci hai inchiodato alla poltrona nelle serie precedenti? Abrams, ti voglio bene e ti ringrazio, ma sei stronzo o che cosa?!?

Lost è nata come una serie che raccontasse qualcosa che nessun telefilm si fosse mai permesso di raccontare, doveva regalare alla comunità nerd mondiale un lungo ed immenso copione da imparare a memoria e citare senza sosta facendo a gara per vedere chi è quello con meno vita sociale.

Non gli si è mai chiesto di avere una logica. Non gli si è mai chiesto di essere credibile, tutto quello che volevano i fan era che il cerchio si chiudesse e che tutte le sottotrame e i misteri impossibili che spesso si vedevano accadere venissero mostrati in modo chiaro.

Abrams, mi hai fatto capire che su quell’isola ci fosse un mostro pronto a spaccare il culo anche a King Kong; mi hai mostrato video del progetto Dharma a profusione e mi hai fatto credere che fosse un progetto volto a un fine superiore (e se si fosse rivelata una gigantesca candid camera sarebbe stato ancora più geniale); mi hai fatto credere che ci fosse un ragazzino che materializzava i suoi desideri come nell’episodio del film di Ai Confini della Realtà; hai fatto viaggiare un uomo nel tempo e mostrato un congegno che poteva distruggere l’intero pianeta.

Poi magari hai perso il quaderno degli appunti, forse ti ha lasciato la ragazza o magari, come per Paul McCartney, hanno piazzato al tuo posto un bel sosia in modo da nascondere al mondo la tua prematura dipartita. Ma perchè di tutti gli sbocchi che potevi usare per chiudere la serie col botto, hai dovuto prendere proprio quell’unico, piccolo e poco illuminato vicolo cieco della spiritualità e della religione? Il bene e il male in lotta?!? Ma in lotta per cosa di preciso? per quella quarantina di anime di persone che immancabilmente dopo poche puntate si trasformavano da eroi senza macchia a incredibili pezzi di merda? Sul serio nel tuo vulcanico cervello macina idee è risultata vincente l’idea di due semidivinità che fanno tutto quel casino per quaranta anime o giù di lì? Io così su due piedi arrivo a pensare che ci si guadagnerebbe di più a vendere tutti e 101 i cuccioli di dalmata a Crudelia Demon, almeno lei se li viene a prendere comodamente a casa tua, e non ti chiede certo di spedirli inutilmente su un isola sperduta, e un centinaio di cani valgono di più di quei quattro relitti umani che hai voluto rendere famosi facendoli recitare nella tua serie.

J.J. Abrams, se mai ritrovassi il rotolo di carta igenica dove prendevi i tuoi appunti per la serie di Lost, e fosse concessa l’immensa fiducia che servirebbe a produrre un’ultima e riparatoria stagione della serie, eccoti due idee non male da riprendere in mano:

Se c’è un mostro deve essere un mostro. Spaventoso, enorme e carnivoro (o anche terribilmente cattivo poteva andare bene). Il progetto Dharma dovrebbe avere un senso solo per cinque persone in tutto l’universo (magari di queste cinque persone solo una potrebbe risultare umana) e la scoperta di quel segreto dovrebbe svelare verità incredibili (possibilmente ricollegabili a misteri che nel mondo reale ancora non sono stati risolti). Chi ha inventato la teoria del viaggio nel tempo non credo si offenderà se la si collegata al magnetismo dell’isola, e sarebbe anche meglio fargli fare qualche danno apocalittico a questo benedetto magnetismo (è poco credibile credere che una forza capace di muovere un’isola si possa imbrigliare con un bottone e un timone di legno). E per quanto riguarda Walt…ma santo Dio, l’aveva scritta qualcun’altro vent’anni fa quella storia…se vuoi copiarla o ispirartici fallo, ma fallo bene e arriva a una conclusione (o qualcosa che almeno gli si avvicini).

Forse ti hanno costretto a chiudere in malo modo la serie, perchè sembra davvero che un paio di queste chicche le hai poi scaricate su Cloverfield e il risultato mi ha fatto godere a più non posso. Forse in tutti i tuoi film stai scaricando un pò di idee incompiute che non hanno trovato spazio in Lost, e se è così correrò a vedere Super 8 alla prima occasione.

Comunque ti stimo, perchè sei e resterai sempre uno dei più grandi talenti visionari del cinema e della sci-fi in general.

Cthulhu

Ci sono giorni nella vita delle persone in cui queste si fermano qualche attimo a ripensare ad episodi del passato in cui la loro vita ha subito una svolta, positiva o negativa che sia non ha importanza, quella svolta c’è stata e niente al mondo avrebbe potuto fare in modo che le cose andassero diversamente.

Oggi ho ripensato alla volta in cui ho cambiato completamente la mia opinione sui libri. Grazie al genio di H.P. Lovecraft.

Ricordo che arrivavo dalle scuole elementari, e tutta la buona volontà di mia zia, di mia madre, e della maestra non erano mai riusciti a convincermi di quanto potesse essere utile spendere giorni a leggere un libro. Specialmente quando, vedendo in televisione il film ispirato dal libro, in due ore e senza lo sforzo di girare le pagine e immaginare le scene descritte ti potevi portare a casa la tua bella storia, salvando vacanze estive e tempo prezioso da impiegare su un campo di calcio.

Finchè non ti capita in mano un libro di Lovecraft, un libro che ti fa sentire figo solo tenendolo tra le dita, perchè hai sentito per anni parlare di questo scrittore dai tuoi amici più grandi, per anni ti sei dovuto far prendere per il culo perchè non lo avevi mai sentito nominare e per anni hai subito crudeli esclusioni da giochi di ruolo che promettevano di essere la cosa più entusiasmante che mai mente umana avesse concepito, ma tu di Lovecraft non sapevi niente, spiegartelo sarebbe stato impossibile, quindi era meglio per tutti se rimanevi a casa a e ti guardavi una puntata di Drive-In in TV. Piangendo dentro di te.

Comunque a un certo punto qualcosa di Lovecraft riesci a trovarlo, quindi pensi sia il momento di asciugarti le lacrime, alzare la testa e metterti a leggerlo per sbattere in faccia a tutti quello che pensi di poter capire. Sbagliato.

Perchè non hai la preparazione adatta, non sei allenato (nessun film dell’orrore ti potrà mai preparare a questo) e quindi, inevitabilmente, a pagina 13 inizi a cagarti addosso, ma cagarti addosso sul serio, con il fiato corto e il cuore che tenta di uscirti dal petto senza passare dal via ritirando i venti dollari. E se poi, nel bel mezzo della lettura (quella fase ipnotica in cui il mondo che ti circonda scompare e ti ritrovi dentro lo scenario del libro) il rumore di una porta che sbatte all’improvviso ti riporta alla realtà, capisci che non è il caso di proseguire, quindi fai un’orecchia alla pagina per non perdere il segno, chiudi il libro, molli la presa da gatto che ti ha fatto attaccare al soffitto per la strizza e riponi delicatamente il volume nella libreria prima di andare in bagno a cambiarti le mutande.

Ovviamente dopo a riprendere il libro non ci pensi nemmeno, ma in quei successivi cinque anni che passi a correre senza sosta dietro ad un pallone, un angolino della tua mente rimane costantemente rivolto a quella storia di Lovecraft, a Cthulhu e alla follia che potrebbe scatenare, al salto che hai fatto, a come ti sentivi stretto nella morsa della disperazione e non smetti di chiederti come possa un libro arrivare a farti provare una cosa simile. Ed è quando senti il bisogno di riprovare quel tipo di disperata paura, che sei pronto a leggere Lovecraft, perchè quella paura che tanto ti è mancata riuscirà ad assuefarti e farti arrivare in fondo al libro, per poi correre in libreria a cercare una raccolta di racconti ancora più completa e cazzuta.

Lovecraft ha il potere di catturare per sempre chiunque riesca a non aver paura della disperazione e del terrore, per questo si può essere certi, che di maestri di questo genere di letteratura non ce ne potranno mai essere.

Vorrei ricordare l’esistenza di questo affascinate quanto inquietante strumento, il Theremin, il più antico strumento musicale elettronico.

L’idea dello strumento venne in mente a Leon Theremin, durante alcuni esperimenti con degli amplificatori a valvole commissionatigli dall’esercito. Theremin si accorse che in alcuni casi veniva prodotto un fischio, e che l’intensità o il suono di tale fischio poteva essere modificata variando la distanza delle mani dalle valvole. Fu solo grazie a un’incredibile curiosità e tenacia che arrivo a costruire un vero e proprio strumento musicale che prese il nome di eterofono (e successivamente di Theremin).

Fino a qualche giorno fa non sapevo della sua esistenza, ma sentendolo all’opera, mi sono ricordato di quante emozioni abbia saputo regalarmi attraverso le innumerevoli pellicole in cui ha fatto la sua comparsa.

Lo si può sentire anche in quel capolavoro di Ultimatum alla Terra, nonchè in Qualcuno volò sul nido del cuculo, La moglie di Frankestein e La cripta e l’incubo, ma sono solo alcuni nomi delle migliaia di colonne sonore in cui questo strumento è stato usato.

Un ringraziamento di cuore a Leon Theremin per l’invenzione dello strumento, a tutti quelli che hanno avuto l’intuizione geniale di utilizzarlo per creare certe atmosfere incredibili, e a Valentina, che mi ha fatto capire cosa fosse e ha messo insieme un bel pò di tasselli nel mio cervello.

Fulminato dal ricordo dei film da domenica pomeriggio di cazzeggio, e tornando sul vecchio discorso della qualità di certi film, non riesco a smettere di farmi domande che probabilmente sono trite e ritrite, ma a cui, ancora oggi, non riesco a dare risposte convincenti.

Perchè non si fanno quasi più grossi investimenti sui beast movie e gli eco vengeance?

Perchè certi film continuano a restare inviolati dall’operazione remake in corso da anni?

E’ vero che può sembrare un genere molto poco commerciale, ma come è possibile che vedendo gli incassi di film come Blu Profondo, Cloverfield o il Godzilla americano (per non parlare del recente remake di Piranha) a nessuno sia venuta la voglia di spremere per bene questo filone?

Come si può considerare anche solo lontanamente logico, per non dire utile, insistere a produrre centinaia di cagate come la serie Shark Attack e i suoi vari derivati aventi come protagonisti gli animali preistorici? (voglio dire: Mega Shark vs. Giant Octopus?!? Uno squalo di trenta metri che salta, arriva tra le nuvole, e addenta un aereo in volo per mangiare i passeggeri??? dai, non scherziamo, ci sono nuove droghe in circolazione???)

Guardare per credere (Shark attack 3):

Io non so per filo e per segno quali siano i processi che portano alla realizzazione di un film, ma sono certo che a un certo punto il regista, il produttore (che rompe il suo salvadanaio per fare un film e guadagnarci sopra vendendolo) e altri personaggi piuttosto pieni di soldi e potere si siedano in una stanza tutti insieme e guardino la pellicola finita. Mi chiedo, quindi, quali siano stati i commenti dopo aver finito di vedere Shark Attack 3 e quale sia stata la forza misteriosa che ha impedito la messa al bando da tutto l’universo di questa pellicola. Perchè il dvd di questo film non è stato dato in mano al capitano Kirk chiedendogli la cortesia di spararlo oltre il più remoto buco di culo sperduto dell’ultima galassia conosciuta, là dove nessun uomo avrà mai voglia di giungere?

Onestamente, anche se dovrei vergognarmi a dirlo, vado in visibilio per idee del genere. Incrocio sempre le dita sperando di vedere 90 minuti di recitazione vagamente decente e di effetti speciali che possano reggere il confronto quantomento con un Commodore 64 di seconda mano. E in un certo senso ammiro ed invidio la capacità degli americani di asfaltare i propri neuroni e radunarsi con tutta la famiglia davanti alla televisione con familiari e/o amici intrattenendosi con film del genere sempre e comunque.

Tempo fa, voci di corridoio davano per confermato una trasposizione cinematografica di Meg, un romanzo di Steve Alten (che poi ha dato inizio ad una sorta di saga), in cui una perforazione petrolifera di troppo riporta in superficie un Megalodon abbastanza grosso e incazzato da non farsi intimorire nemmeno da una nave da guerra.

Si diceva, tra le altre cose, che avrebbe dovuto essere una produzione da un budget più o meno elevato, ma tutto quello che è arrivato, almeno qui in Italia, è una ciofeca come Megalodon, che riprende più o meno fedelmente il romanzo di Alten, ma la cui resa è a dir poco di dubbio gusto (richiamare il capitano Kirk per piacere).

Ci sono i soggetti interessanti, ci sono sceneggiatori che si girano i pollici mentre producono Transformers 3, c’è la tecnologia giusta per rendere certe storie una figata, ci sono i concept e le tavolozze delle scene e ci sono addirittura registi talentuosi che avrebbero voglia di cimentarsi in certe prove. Quindi perchè non fare un bel lifting ad altri beast movie? Magari farne uno o due all’anno e farli bene?

Gli animali cazzuti non mancano mai in natura e a renderli ancora più cazzuti con qualche scusa adorabilmente incoerente non ci vuole poi molto, pensaci bene Hollywood.

Ho deciso di rendere omaggio al film che cambiò definitivamente il mio modo di intendere il genere horror e, perchè no, anche di intendere il cinema in generale, visto che a breve cadrà l’anniversario della mia prima visione di questo gioiello dei B-movie da pop-corn.

Ricordo ancora che fu solo grazie ad una piccola emittente televisiva regionale, nell’ormai lontano 1989, che incappai per la prima volta in questo capolavoro di Jack Arnold. Prima di allora ammetto che guardare un film horror da solo mi creava seri problemi di insonnia e conseguenti cambi di mutande a ripetizione. Il fatto è che allora ero ancora un bambino, e la quantità di mostri, boogeyman, case infestate e morti terrificanti con cui infarcivano la maggior parte dei film durante quegli anni era davvero dura da gestire per me e il coraggio di cui ero dotato (e, per quanto trovi ripetitivo l’argomento, va ammesso che gli horror prodotti fino alla fine degli anni ’90 avevano una magia che è ormai andata perduta).

La trama del film è piuttosto semplice, e probabilmente poco innovativa persino per il 1954: durante una spedizione lungo il Rio delle Amazzoni, una squadra di scienziati si imbatte in una misteriosa laguna, che conserva ancora intatto l’ambiente preistorico delle sue origini. In questa laguna viene scoperta una creatura mostruosa, metà pesce e metà uomo. Gli scienziati riescono a catturare il mostro solamente dopo che egli ha ucciso alcuni uomini della squadra, ma poco dopo la cattura la creatura riesce comunque a scappare. Una volta fuggito, sarà il mostro a dare la caccia agli uomini, intrappolandoli nel suo territorio e costringendoli a uno scontro finale.

Per chi si avvicina al film senza conoscere niente della trama (e se mai esistessero persone simili dovrebbe esserci anche una legge che gli vieti di avvicinarsi ad un cinema) potrebbe sembrare una gran cazzata. Tuttavia, l’aspetto più importante del film è quello di riuscire a essere un horror, ma contemporaneamente a far vivere a chiunque, ma proprio chiunque, la magia di un’avventura da cui non si dovrà temere mai nulla.

Quello che mi colpì di questo film, infatti, fu la capacità di tenermi inchiodato allo schermo trattenendo il fiato ad ogni scena di tensione, ogni volta che veniva mostrata la creatura, e nel contempo emozionarmi ed esaltarmi senza mai terrorizzarmi. Probabilmente in un genere come l’horror questo può essere visto come un grosso difetto, ma quando permette ad un bambino di capire che un film dell’orrore non è altro che un’avventura in cui l’aspetto fantastico e misterioso viene spinto all’estremo, io non posso che considerarlo una benedizione.

Perchè è grazie a questo film che rido alle battute da cazzaro di Freddy Krueger, che tifo sempre per Jason Voorhes e dopo 11 film in cui massacra teen-ager mi viene ancora voglia di offrirgli una birra, che mi manca da morire il ciclo notte horror su italia 1 nelle sere d’estate e che vorrei consigliare a Michael Myers di usare facebook per trovare tutti i parenti che vuole ammazzare e prendersi finalmente una sera libera.

Ho il massimo rispetto per Jack Arnold e questo suo film (come per tutti i film della Universal che diedero il via al genere) perchè ti fanno capire cosa sia l’amore per il fantastico e l’inspiegabile, te lo mostrano e fanno in modo che tu ne venga contagiato, dando il coraggio anche ad un bambino di farsi accompagnare nelle notti estive dai personaggi più paurosi e tenendo accesa a qualsiasi età la voglia di lasciarsi stupire ed incantare da un gigantesco uomo mezzo pesce vestito di lattice e gomma.

Grazie di tutto Jack.

Tre cose fondamentali che mi hanno portato a voler scrivere questa breve pseudo-riflessione:

1) Probabilmente questo non è il libro migliore di Palahniuk, ma non me frega un cazzo, la giornata è stata pesantina e l’orario è quello che è…quindi non vedo perchè parlare di opere migliori e ritrovarsi poi persi nelle mille sfaccettature a cui questo scrittore da sempre ci ha abituati.

2) Odio rivelare trame, ma questo libro parla di una gang bang (una donna che si scopa un numero considerevole di uomini più o meno contemporaneamente, per i profani) da guiness dei primati. Sul serio…è tutto qui, ci sono 5 personaggi in tutto il libro: una pornostar leggendaria, un pornodivo sul viale del tramonto e tre relitti umani che intrecciano le loro vite sul set di un porno che scriverà la storia del genere. Quindi diciamo ai perbenisti, moralisti e perchè no…anche ai pornografi incalliti che questo libro non è adatto ai loro gusti. Il porno e il sesso estremo (che, per inciso, non posso che considerare un aspetto più che positivo) sono solo una cornice per raccontare una storia che va dal comico al cinico nell’attimo che si può impiegare a battere le ciglia, benchè la storia ruoti attorno a tutt’altro.

3) Questo libro mi ha fatto conoscere, Palahniuk, so bene che non è il racconto che lo ha reso celebre nel mondo della letteratura, ma stiamo parlando della storia di una gang bang da 600 uomini. Come si fa a non amarlo? Come si può non apprezzare uno scrittore che ti trasporta in mezzo a 600 uomini con il pisello in mano e inizia a prenderli per il culo praticamente uno per uno?